L’arte della guerra romana ebbe un notevole successo per molti secoli e in diversi territori, grazie a numerosi fattori determinanti. L’Italia, penisola difficilmente attaccabile, aveva a disposizione un folto gruppo di combattenti da cui attingere, un esercito disciplinato e innovativo, un comando e una linea di rifornimento centralizzati, ingegneri esperti, nonché una rete di alleati a renderne efficace la diplomazia.
Gli alleati di Roma non si limitavano a rifornire, equipaggiare e pagare gli uomini in più, procuravano altresì, materiali vitali quali cereali e navi. L’approccio inclusivo che i romani avevano nei confronti dei popoli conquistati, permise di rafforzare e espandere potere e basi logistiche. Roma, come se non bastasse, era in costante stato di guerra o di preparazione al conflitto e credeva nella propria superiorità culturale al punto tale da avvertire la necessità di difenderla e imporla sugli altri popoli.
Pronti alla guerra
Nella cultura romana, i valori marziali venivano altamente considerati e la guerra era fonte di prestigio per la classe dirigente, i cui avanzamenti di carriera derivavano dal successo nelle imprese militari. Il conflitto nella cultura romana, in effetti, risale alle origini di Roma e alla mitica battaglia tra Romolo e Remo. Una tale sete di guerra, unitamente a ciò che Polibio definisce come “risorse inesauribili in termini di rifornimenti e uomini”, fece di Roma un nemico temibile e implacabile per i popoli del Mediterraneo e non solo. Ci furono, tuttavia, anche dei periodi in cui i romani superarono se stessi – come accadde contro Cartagine, la Partia o le tribù germaniche – o in cui si trovarono a lottare contro altri romani, fu il caso delle guerre civili tra Giulio Cesare e Pompeo, o Vitellio contro Otone, e in tal caso la carneficina della guerra antica raggiunse proporzioni ben più vaste.
Ai tempi della Repubblica la dichiarazione di guerra, in via teorica, era nelle mani del popolo, tuttavia, di fatto la decisione di ricorrere alle armi veniva presa dal Senato. Da Augusto in poi la decisione divenne esclusiva dell’imperatore. Una volta stabilita l’azione militare, venivano svolti dei rituali, come sacrifici e divinazioni, alla ricerca di presagi favorevoli, nonché il rito della supplicatio, durante il quale venivano offerte preghiere e doni ai templi di ciascuna delle divinità principali.
Struttura e comando dell’esercito romano
L’esercito romano lasciò il segno ovunque andasse, creando strade, depositi e basi. Coinvolgere uomini di età compresa tra i 16 e i 60 anni, era un mezzo per la romanizzazione dei territori conquistati e uno dei principali vettori dell’influenza straniera sulla stessa Roma.
Uno o entrambi i consoli conducevano la guerra sul campo di battaglia, sebbene il comando poteva essere affidato ad un pretore o ad un promagistrato detenente l’imperium che, altrimenti, comandava le singole legioni. Nel caso in cui erano presenti entrambi i consoli, ogni giorno si alternavano al comando . Durante il periodo imperiale, l’esercito poteva essere guidato dallo stesso imperatore. Anche tribuni e legati potevano comandare una legione o dei distaccamenti sussidiari, ciascun manipolo di 200 uomini era comandato da un centurione prior e uno posterior (il primo più anziano del secondo) per un totale di 60 centurioni circa per legione.
Nel primo periodo repubblicano, la formazione delle truppe prendeva esempio dalla falange greca, tuttavia, dal III al I secolo a.C. le tattiche per lo schieramento della fanteria cambiarono. L’unità più numerosa dell’esercito romano era la legione composta da 4.200 uomini ripartiti in 30 divisioni o manipoli, schierati su tre linee (hastati, principes e triarii, ovvero i veterani) disposte a scacchiera (quinconce). A precedere la legione si trovavano altri 800-1200 soldati (veliti) armati alla leggera, spesso inviati dagli alleati di Roma, con 300 cavalieri posizionati a supporto. I due gruppi venivano utilizzati come schermo protettivo per le legioni di fanteria pesante, nonché per disturbare il nemico dai lati, nel caso di attacco frontale alle legioni. Nel I secolo a.C. entrambi i gruppi scomparvero dall’esercito, tuttavia, la cavalleria tornò in auge durante il periodo imperiale. Potevano essere impiegate, inoltre, truppe mercenarie, come arcieri cretesi e frombolieri di Rodi, i quali possedevano abilità che mancavano ai romani.
I manipoli erano mobili, disposti in formazione serrata e potevano ruotare l’attacco contro il nemico per permettere alle truppe fresche di entrare in battaglia. La manovrabilità veniva favorita dall’utilizzo di armi più leggere - spada corta o glaudius Hispaniensis, giavellotto pilum al posto della pesante lancia tradizionale e lo scudo concavo con impugnatura centrale o scutum. Venne riconosciuto inoltre che il terreno poteva essere un importante elemento per favorire o ostacolare i movimenti delle truppe. Le truppe furono addestrate ad utilizzare bene il tipo di armi a disposizione e ad eseguire complicate manovre di battaglia, nonostante la durata e l’intensità di addestramento dipendessero molto dai singoli comandanti.
A partire dal 100 a.C. (forse ancora prima) il manipolo venne abbandonato e la legione suddivisa in 10 coorti da 400 o 500 uomini, le quali sarebbero rimaste l’unità tattica di base dei romani. In questo periodo, le legioni assunsero nomi e identità permanenti e furono equipaggiate dallo Stato. Nel 167 a.C. le legioni erano 8, tuttavia, da lì al 50 a.C. sarlirono a 15 circa. Nel 31 a.C., Augusto creò per la prima volta un esercitò permanente e professionale, con una struttura centrale logistica e di comando. Una tale forza permanente composta da 300.000 uomini spianò la strada ai vasti eserciti dei secoli successivi, periodo in cui in tutto l’impero vi erano 25-30 legioni. Nel 6 d.C. l’imperatore creò inoltre un fondo apposta per l’esercito (aerarium militare), finanziato dalle tasse e che consentiva un sistema di pensionamento. Un’ulteriore politica messa in atto da Augusto fu di assicurare la lealtà limitando accuratamente i posti di comando alla cerchia imperiale.
Motivare le truppe
Le truppe prestavano giuramento di fedeltà, sacramentum, all’imperatore stesso. Il giuramento costituiva l’elemento principale per garantire la fedeltà e incoraggiare la disciplina – disciplina militaris – per la quale le forze armate romane divennero famose già a partire dalla prima Repubblica e che portò a molte vittorie sul campo di battaglia. La disciplina veniva ulteriormente garantita grazie ad un sistema di premi e punizioni. I soldati potevano ricevere riconoscimenti, denaro, bottini e promozioni per aver dato prova di coraggio e iniziativa. La mancanza di ricompense e un servizio eccessivamente lungo privo di ferie, tuttavia, potevano essere causa di rimostranze che talvolta si trasformavano in ammutinamento. Le punizioni assumevano molteplici forme e potevano essere messe in atto non solo nel caso di ammutinamento, ma anche per mancata dimostrazione di coraggio in battaglia. La punizione della decimazione, in particolare, veniva solitamente inflitta in caso di codardia, come abbandonare il corpo di un combattente caduto. In tal caso, dopo aver tirato a sorte, un soldato ogni dieci veniva ucciso a bastonate dagli altri nove. Tra le altre punizioni figuravano la perdita del bottino, della paga o del grado, la fustigazione, il congedo con disonore, la vendita in schiavitù o persino l’esecuzione. Il principio era che una volta infranto il giuramento di fedeltà venivano meno tutti i diritti.
Strategie
I Commentari sulla guerra gallica di Giulio Cesare descrivono l’attenzione che il grande comandante riservava alla logistica, alla risolutezza e all’apparente sicurezza e l'impatto positivo che queste ultime avevano sul morale delle truppe. Giulio Cesare sottolinea inoltre l’importanza dell’innovazione, del patriottismo, della disciplina e della buona sorte. Un comandante, inoltre, poteva aumentare notevolmente le probabilità di successo prima della battaglia carpendo informazioni militari sul nemico da prigionieri, dissidenti e disertori. I comandanti potevano covocare (come fece Cesare stesso) un consilium o consiglio di guerra con gli ufficiali per illustrare e discutere le strategie di attacco e avvalersi dell’esperienza dei veterani che prendevano parte alle battaglie. La combinazione di tali fattori garantì secoli di dominio militare romano. Lungo il cammino numerose furono le sconfitte, tuttavia, è interessante notare che i comandanti spesso sfuggivano alle ripercussioni causate della propria incompetenza militare ed erano i soldati di solito a prendersi la colpa della sconfitta.
I comandanti romani preferivano in genere un attacco aggressivo e frontale (anche se preceduto da un’adeguata ricognizione da parte di un’avanguardia composta da truppe d'esplorazione, exploratores), mentre per sottomettere le popolazioni locali facevano ricorso anche a tattiche di terrore e vendetta, una strategia associata alla clementia – accogliere ostaggi e promesse di pace dai nemici. Dal I a.C. venne incrementato l’utilizzo di fortificazioni e trinceramenti sul campo di battaglia e assedi. Dal III secolo a.C. la difesa dei confini imperiali divenne una priorità e portò alla fortificazione delle città e ad un dispiego più agevole di piccole unità di truppe (vexillationes) composte dai 500 ai 1.000 uomini. In gran parte, tale situazione era dovuta al fatto che le forze nemiche temevano i potenti attacchi dei romani e preferivano, di conseguenza, tattiche di guerriglia. Giulio Cesare era altresì un convinto sostenitore degli assedi, i quali di fatto presentavano alcuni vantaggi. Una forza avversaria poteva essere fortemente ridotta in un solo colpo, così facendo la popolazione locale veniva terrorizzata a tal punto da accettare Roma come nuovo dominatore e, in caso di successo, acquisire una roccaforte già pronta.
Assedi
Durante un assedio tradizionale le forze venivano inviate in anticipo per circondare l’insediamento da attaccare ed evitare che qualcuno potesse fuggire. La forza principale costruiva un accampamento fortificato fuori dalla linea di fuoco della città, preferibilmente su un’altura, il che garantiva un buon punto di osservazione all’interno dell’insediamento, permettendo di individuare obbiettivi chiave, come l’approvvigionamento idrico. Una volta sferrato l’attacco, le mura del difensore potevano essere superate grazie l’utilizzo di una rampa fatta di alberi, terra e rocce. Durante questa operazione gli assalitori sarebbero stati protetti da coperture temporanee e dal fuoco di copertura proveniente da batterie di catapulte a torsione, lanciatori di bulloni, lanciatori di pietre e arcieri. I difensori potevano cercare di estendere l’altezza del tratto di mura sotto attacco e persino aggiungere delle torri. Gli assalitori potevano attaccare le mura anche con pesanti arieti (sospesi su un’intelaiatura) e utilizzare torri d’assedio. I difensori lanciavano contro gli assalitori tutto ciò che avevano a disposizione, come olio in fiamme, pezzi di legno o rocce incandescenti e potevano anche cercare di indebolire rampe e torri d’assedio scavando un tunnel, tecnica che poteva essere utilizzata anche dagli assalitori per minare le mura difensive. In genere, a conquista avvenuta, solo donne e bambini potevano sperare di sopravvivere, dal momento che era necessario dare prova dell'inutilità di una resistenza prolungata.
Logistica
L'esercito imperiale in marcia era prima di tutto ben ordinato. Oltre ai legionari, la truppa poteva includere cavalleria, arcieri, ausiliari, artiglieria, arieti, portabandiera, trombettieri, servi, muli per i bagagli, fabbri, ingegneri, geometri e costruttori di strade. Una volta giunto a destinazione, l'esercito allestiva un campo fortificato che, grazie alle capacità logistiche dei Romani, poteva essere rifornito indipendentemente dal territorio locale, soprattutto in termini di cibo. Una volta raggiunto l'accampamento, i rifornimenti venivano conservati in magazzini appositi (horrea) che, costruiti su palafitte e ben ventilati, permettevano una migliore conservazione dei beni deperibili. Le scorte di cibo erano a riparo dal nemico numero uno - il ratto nero – dai gatti che, per la stessa ragione, venivano utilizzati anche sulle navi.
Tra le innovazioni del periodo imperiale, troviamo l'introduzione dei medici e degli assistenti medici (capsarii), che furono assegnati per la maggior parte alle unità militari. All’interno degli accampamenti fortificati, esistevano anche ospedali militari (valetudinarium).
Guerra navale
Le tattiche navali romane differivano poco dai metodi messi in pratica dai Greci. Le navi erano spinte da rematori e vele per permettere il trasporto delle truppe e, durante le battaglie navali, le imbarcazioni si trasformavano in arieti sfruttando quelli rivestiti in bronzo fissati sulla prua della nave. L’impiego di navi da guerra da parte di Roma risaliva già alla prima Repubblica, tuttavia, soltanto nel 260 a.C. venne costruita la prima imponente flotta, costituita da 100 quinqueremi e 20 triremi, in risposta alla minaccia di Cartagine. Le quinqueremi, composte da cinque ordini di rematori, erano dotate di un ponte utilizzato per bloccare le navi nemiche in modo che potessero essere abbordate, un tale congegno era noto come corvus (corvo). Alla fine i Romani sconfissero la flotta cartaginese, soprattutto perché in grado di sostituire più rapidamente le navi e gli uomini persi. Roma riunì nuovamente una flotta quando Pompeo attaccò Panfilia e Cilicia nel 67 a.C. (una campagna che Plutarco identifica come la sconfitta della pirateria) e in seguito nel 36 a.C. quando Marco Agrippa radunò quasi 400 navi per attaccare la Sicilia e la flotta di Sesto Pompeo Magno. Alcune navi di Agrippa erano dotate di un nuovo rampino lanciato da una catapulta che, con l'aiuto di un argano, veniva utilizzato per attirare una nave nemica e abbordarla.
Nel 31 a.C. si svolse la grande battaglia navale presso Azio tra le flotte di Ottaviano e di Marco Antonio e Cleopatra. A seguito della vittoria, il nuovo imperatore Augusto istituì due flotte: la classis Ravennatium di base a Ravenna e la classis Misenatium la cui base era situata a Misenum, le quali operarono fino al IV secolo d.C.. Vi erano inoltre flotte con base ad Alessandria, Antiochia, Rodi, Sicilia, Libia e Britannia, nonché una che operava sul Reno e altre due sul Danubio. La presenza di tali flotte permetteva a Roma di far rapidamente fronte a qualsiasi esigenza militare in tutto l'impero e di rifornire l'esercito nel corso delle varie campagne.
Le flotte erano comandate da un prefetto (praefectus) nominato dall'imperatore. Il capitano di una nave deteneva il grado di centurione o il titolo di trierarca. Le flotte facevano base in porti fortificati, come Portus Julius in Campania, che includeva porti artificiali e lagune collegate da gallerie. Gli equipaggi delle navi militari romane erano composti, in realtà, più da soldati che da marinai, dal momento che ci si aspettava che agissero come truppe terrestri armate alla leggera, quando necessario. Di solito venivano reclutati sul posto e scelti tra le classi più povere, tuttavia, potevano anche essere assoldati prigionieri di guerra e schiavi.
Il bottino del vincitore
La vittoria sul campo permise di conquistare nuovi territori, di acquisire ricchezze e risorse, persuadere i nemici a negoziare la pace, nonché rendere chiaro che Roma avrebbe difeso le proprie frontiere e che possedeva un’insaziabile sete di espansione, dando prova inconfutabile di quanto fosse formidabile la macchina da combattimento che i romani potevano mettere in campo di battaglia.
Nella Repubblica le armi nemiche potevano essere bruciate e offerte agli dei, in particolare, Marte, Minerva e Vulcano. I comandanti vittoriosi facevano ritorno a Roma da eroi in un corteo trionfale e nel corso dei secoli se ne contarono oltre 300. Il trionfo veniva prima approvato e finanziato dal Senato. Il comandante entrava in città a bordo di un carro accompagnato da un sontuoso corteo che comprendeva prigionieri, tesori quali oro, opere d’arte e persino animali esotici provenienti dai territori conquistati. Il comandante indossava abiti porpora (toga picta e tunica palmata) e una corona di alloro, impugnava uno scettro d'avorio e un ramo d'alloro, e dietro di sé uno schiavo gli reggeva in testa una corona d'oro e sussurrava: "Guarda indietro" (Respice) per ricordargli i pericoli dell'orgoglio e dell'arroganza. A partire dal periodo augusteo solo gli imperatori potevano godere del trionfo, tuttavia, col tempo, la pratica divenne molto meno frequente.
I comandanti vittoriosi utilizzarono il bottino di guerra per abbellire Roma, come accadde per il teatro di Pompeo, il foro di Augusto e il Colosseo di Vespasiano. Tra le altre opere architettoniche che servirono a celebrare la vittoria vi furono obelischi e colonne; tuttavia il monumento più emblematico della vanità militare dei romani fu l’arco di trionfo, il più grande e decorativo dei quali fu quello di Costantino I a Roma.
Conclusione
Le forze armate di Roma rappresentavano la spesa più ingente per lo Stato, tuttavia, i territori, le risorse, le ricchezze e gli schiavi conquistati, nonché la successiva necessità di difendere le frontiere, facevano sì che la guerra fosse una preoccupazione inevitabile per i romani. Roma poteva godere dei grandi successi in battaglia, tuttavia, anche le sconfitte ne potevano minare le fondamenta, dal momento che abili avversari iniziavano ad utilizzare le vincenti strategie romane a proprio vantaggio. Inoltre, man mano che le capacità militari di Roma acquisivano maggiore notorietà, diventava sempre più difficile per l'esercito romano affrontare direttamente il nemico. I Romani, tuttavia, nel corso di molti secoli e attraverso tre continenti, avevano dimostrato che un esercito ben addestrato e ben disciplinato, se sfruttato appieno da comandanti dotati, poteva godere immensi benefici; fu soltanto ad un millennio dalla caduta dell'impero che la guerra tornò alla grandezza e alla professionalità che Roma aveva portato sul campo di battaglia.