Nell'Agosto del 410 d.C. il Re Goto Alarico portò a termine un'impresa che non era riuscita a nessuno in oltre otto secoli di storia: lui e le sue truppe violarono le porte della Roma imperiale, mettendo a ferro e fuoco la città. Sebbene, a seguito di ciò, l'Impero Romano sopravvisse ancora per qualche tempo, il saccheggio lasciò un marchio indelebile, destinato a rimanere per sempre. Alarico ed il suo esercito varcarono le porte della città provenendo dalla Salaria e si accanirono su di essa dopo che aveva già sofferto la fame e la carestia. Pur lasciando intatte le chiese come san Pietro e san Paolo, le truppe distrussero i templi pagani, bruciando l'antica sede del Senato, giungendo addirittura a fare prigioniera Galla Placidia, sorella dell'Imperatore Onorio.
I Goti
Sin dai primi tempi dell'Impero, Roma aveva dovuto costantemente combattere in difesa dei confini esterni. In ragione di ciò, quando le tribù dei Goti - Turingi e Greutungi - chiesero rifugio dai feroci assalti degli Unni, i Romani ben ponderarono le alternative ed alla fine permisero loro di stabilirsi sulla frontiera balcanica, richiedendo, naturalmente un corrispettivo. Da quel momento si strinsero varie alleanze ed altre furono infrante. Tuttavia, a Roma, molti rimasero delusi della nuova politica di legittimazione dei Goti, poiché questi ultimi continuavano ad essere visti come nient'altro che barbari, benché molti tra loro fossero cristiani. Ai nuovi arrivati vennero avanzate richieste irragionevoli, ed ebbero molto a patire dovendo rimanere sottomessi a comandanti senza scrupoli. Dovendo, inoltre, far fronte alla denutrizione dovuta alle inadeguate forniture di provviste ed alla prolungata carestia, i Goti si sollevarono contro i Romani, dando inizio ad una lunga serie di incursioni e saccheggi delle campagne.
I contrasti tra le parti culminarono nella Battaglia di Adrianopoli del 378 d.C. L'Imperatore Valente (r. 364-378), in cerca soltanto di un'affermazione personale, fu sonoramente sconfitto. La sconfitta non portò solo ingenti perdite di vite umane, tra cui molti veterani, ma altresì evidenziò tutte le debolezze militari dell'Occidente. Teodosio I (r. 379-395) subentrò a Valente come imperatore e nel 382 fu siglato un nuovo trattato di alleanza. L'accordo prevedeva concessioni territoriali per i coloni goti, che in cambio avrebbero dato nuove leve da arruolare nelle truppe dell'esercito romano. Con la sconfitta, avvenuta in Gallia, dell'Imperatore Massimo Magno (r. 383-388) Teodosio riuscì a riunire, per l'ultima volta, l'Oriente e l'Occidente dell'Impero ed inoltre mise al bando ogni forma di paganesimo. Così, per qualche tempo, si ebbe in fine un periodo di pace tra Roma e le tribù dei Goti.
Conflitti di attribuzione del titolo imperiale in Occidente
Alla morte di Teodosio, avvenuta nel 395, i suoi due giovani figli Arcadio (r. 395-408) e Onorio (r. 395-423) ne divennero successori - Arcadio nella parte orientale ed Onorio in quella occidentale dell'Impero. Tuttavia, siccome i due eredi erano entrambi giovanissimi, furono affiancati da alti dignitari delle rispettive corti. A Roma, dal momento che Onorio aveva soltanto dieci anni, fu nominato reggente il magister militum (capo dell'esercito), Flavio Stilicone. Egli, metà romano e metà vandalo d'origine, provò ad ottenere la reggenza anche della parte orientale, ma il suo tentativo non andò a buon fine e ciò lo segnò profondamente negli anni seguenti.
Purtroppo per la parte occidentale, gli imperatori da Valente a Romolo Augustolo (r. 475-476) diedero pessima prova di loro, dimostrandosi inadatti alla carica fino ad essere succubi della casta militare ed allontanandosi progressivamente dalla politica attiva. Onorio non visse nemmeno a Roma, decidendo di stabilirsi a Ravenna. Inoltre, quando l'Occidente mostrò di essere sempre più soggetto agli attacchi esterni, le due parti dell'Impero si allontanarono progressivamente tra di loro. La debolezza occidentale divenne evidente allorquando nel 406 Alani, Svevi e Vandali attraversarono il Reno ghiacciato, portandosi nella Gallia, per giungere poi, alla fine, in Spagna. Le guarnigioni demandate ordinariamente a difendere la Gallia, infatti, erano state precettate col fine di fronteggiare un usurpatore proveniente dalla Britannia, il futuro Costantino III. Con l'amministrazione romana in una tale situazione di crisi, era giunto il momento propizio alle tribù gotiche per sollevarsi contro i Romani.
Stilicone
I Goti non avevano mai fino in fondo ritenuto possibile che i Romani tenessero fede agli impegni presi nel 382, confidando di dover riscrivere la vecchia alleanza siglata con Teodosio. In particolare era loro sgradita la clausola in osservanza alla quale erano tenuti a fornire soldati all'esercito dei Romani, in quanto ritenevano che ciò avrebbe a lungo andare fortemente indebolito le loro guarnigioni e, con esse, le loro stesse capacità difensive. Le distanze tra Roma e i Goti continuarono ad aumentare, costringendo questi ultimi ad iniziare nuove campagne predatorie nei territori balcanici. Sebbene i Balcani fossero stati a lungo agognati da Roma, al tempo essi ricadevano formalmente sotto l'autorità dell'Impero orientale ed i Goti, essendo ancora convinti di dover provare a rinegoziare i vecchi accordi, diedero una svolta alla loro strategia, prefissandosi di stringere una nuova alleanza con Arcadio; tali intenzioni però non sarebbero andate a buon fine.
Alarico, pur avendo combattuto nel 394 la Battaglia del Frigido (fiume presso Gorizia) come federato di Stilicone, rivolse le sue attenzioni all'Ovest ed all'Imperatore Onorio, giungendo alla fine ad invadere l'Italia nel 402. Le sue richieste per fermare le ostilità erano semplici: pretendeva di essere nominato magister militum, un titolo grazie al quale avrebbe avuto grande prestigio personale e l'opportunità di migliorare le condizioni dei Goti all'interno dell'Impero, ed inoltre che fossero aumentate le derrate alimentari e la percentuale dei raccolti della regione destinate ai suoi. Stilicone, parlando in nome di Onorio, negò ogni richiesta. Non rimanendo alcuno spiraglio per un nuovo accordo, le parti si scontrarono in due differenti battaglie, senza che vi fosse un vero vincitore, ma con ingenti perdite in entrambi gli schieramenti. Alla fine, Alarico, essendo stato isolato dalla catena dei rifornimenti, fu costretto a ritirarsi.
Nonostante le divergenze, Stilicone confidava di giungere alla pace con Alarico, siglando con lui un nuovo accordo: diritti in cambio di protezione delle frontiere da future invasioni. La nuova proposta prevedeva, infatti, che Stilicone ed Alarico avrebbero operato in modo congiunto col fine di assicurare l'Illirico (Balcani) all'Occidente. Stilicone, non a caso, aveva preso di mira quella regione sin da quando era stato nominato reggente di Onorio. Egli era convinto che i Balcani avrebbero potuto fornire i tanto necessari rinforzi alle truppe romane in Occidente. Alarico si diresse verso Levante, aspettando l'arrivo del suo nuovo alleato. Purtroppo Stilicone non sarebbe mai giunto nelle sue vicinanze, poiché trattenuto su altri fronti. Il primo di questi era stato aperto dal re dei Goti, Radagaiso, che aveva oltrepassato il Danubio invadendo l'Italia, finendo però per essere sconfitto nel 405 a Fiesole (FI) e giustiziato. I Vandali, poi, con i loro alleati avevano attraversato il Reno portandosi nella Gallia ed, in fine, Costantino III, l'usurpatore giunto dalla Britannia era stato dichiarato Imperatore dal suo esercito, riuscendo in breve tempo ad avere sotto il proprio controllo la Gallia e la Spagna. Stilicone venne sopraffatto dalla contemporaneità degli eventi avversi, essendo a corto di finanziamenti per sostenere l'attacco degli invasori. Alarico, che nel frattempo aveva continuato la sua attesa ad Est dell'Impero, esigeva anch'egli nuove risorse economiche. Il suo nuovo alleato, Stilicone, si appellò al Senato romano, chiedendo di approvare la possibile pace con Alarico. Malauguratamente per lui l'intransigente senatore Olimpio, con la sua fazione, non fu d'accordo, portando gli eventi ineludibilmente alla guerra.
Il Sacco di Roma
Sembrava che ogni problema fosse da imputare a Stilicone. Altre accuse gli erano poi rivolte in merito alle sue mire sull'Est. Onorio, che ormai dava maggior credito a quanto sostenuto da Olimpio, rispetto alle proposte di Stilicone, finì con l'assecondare le accuse rivolte a quest'ultimo, facendo arrestare e giustiziare l'uomo che aveva governato in suo nome. L'unica vera possibilità di pace con Alarico stava gradualmente svanendo. Alarico vide nella morte di Stilicone un presagio dei futuri eventi e rivolse la sua attenzione sull'Italia; in un breve torno di tempo città come Iulia Concordia (Concordia Sagittaria - VE-), Cremona ed Ariminum (Rimini) cedettero agli assalti delle sue truppe. Tuttavia, invece di puntare sul palazzo di Onorio a Ravenna, come sarebbe stato ipotizzabile, si diresse verso Roma, ritenendola una preda molto più congrua per le sue future rivendicazioni. Circondò la città, presidiandone tutte le tredici vie d'accesso. I rifornimenti ben presto iniziarono a scarseggiare: il cibo fu razionato, i cadaveri giacevano ai lati delle strade, un odore nauseabondo ammorbava l'aria, ma ciononostante Onorio si rifiutò di portare il suo soccorso. Inoltre, la via fluviale sul Tevere dal porto di Ostia venne interdetta, bloccando in tal modo l'arrivo dei cereali dall'Africa settentrionale. In breve tempo Roma si trasformò in una "città fantasma".
I Romani, pur avendo fatto proposito di resistere fino alle estreme conseguenze, col giungere di Ataulfo, cognato di Alarico, a capo di nuove truppe di Goti ed Unni, realizzarono che la resa, ed il raggiungimento di un accordo, sarebbero stati inevitabili. Alarico acconsentì a togliere l'assedio in cambio di 5.000 libbre d'oro (più di 2 tonnellate), 30.000 libbre d'argento (più di 13 tonnellate), 4.000 tuniche di seta, 3.000 velli di lana tinti di porpora e 3.000 libbre di pepe (circa 1.300 chili). Il Senato romano si ridusse sul lastrico: intere statue dovettero essere fuse e l'erario fu completamente svuotato, ma l'assedio finì ed i rifornimenti iniziarono nuovamente ad arrivare.
Malgrado avessero ormai estorto quanto richiesto, Alarico e suo cognato speravano ancora di poter negoziare una nuova alleanza con Onorio. Il Senato acconsentì alla loro ulteriore proposta e l'Imperatore, seppur con ritrosia, si mostrò disponibile ad un colloquio. Alcuni rappresentanti del Senato furono inviati a Ravenna ma, nella realtà dei fatti, tali colloqui non erano nient'altro che un espediente tattico col fine di consentire l'arrivo delle truppe romane dall'Oriente. Alarico ben presto si ravvide della macchinazione ordita dall'Imperatore e dal suo luogotenente Olimpio e, benché Onorio in linea di principio fosse molto ben disposto verso l'alleanza, al contempo concordava con Olimpio che ogni concessione di territorio sarebbe stata foriera di successivi disastri per i Romani. Eventuali concessioni territoriali, infatti, avrebbero implicato assenza di gettito per l'Impero, la mancanza di gettito la fine dell'esercito e la fine dell'esercito, la fine dell'Impero. Mentre sembrava ci fossero ancora delle speranze, Alarico e le sue truppe lasciarono la città.
Onorio approfittò dell'allontanamento dell'esercito dei Goti, per inviare 6.000 soldati a Roma. Alarico avendo avvistato i Romani, li raggiunse e li sterminò. Quasi contemporaneamente, Ataulfo ed i suoi contingenti, venivano attaccati dai Romani al comando di Olimpio. Pur avendo perso più di mille uomini, Ataulfo riuscì a riorganizzarsi ed a reagire ai Romani, fino a costringerli al ritiro verso Ravenna. Onorio, in preda alla disperazione esautorò Olimpio dal comando e quest'ultimo fuggì verso la Dalmazia.
Onorio nominò allora, come comandante in capo dell'esercito, Giovio, il quale invitò Alarico ed Ataulfo a Rimini, per negoziare una nuova alleanza. Giovio era stato in precedenza l'artefice materiale dell'accordo tra Stilicone ed Alarico. Ai Romani non rimanevano alternative. Se avessero continuato a combattere, i Goti avrebbero visto diminuire le loro guarnigioni al punto di consentire un'agevole invasione da parte di Costantino. Sul campo opposto, Alarico, sebbene avesse poca fiducia nelle promesse dell'Imperatore, auspicava ancora una qualche forma di accordo. Le richieste di Alarico erano semplici, un riscatto annuale in oro, una fornitura annuale di grano e concessioni territoriali per i Goti nella regione Venetia et Histria (Alto Adriatico), nel Norico (Austria) ed in Dalmazia (Croazia). In più, pretendeva la nomina a generale nell'esercito romano. La risposta fu affermativa per la fornitura di grano, ma non per i territori e la carica militare. Alarico abbandonò così il tavolo delle trattative, minacciando di mettere a ferro e fuoco la città di Roma. Dopo alcuni giorni, necessari a raffreddare gli animi, Alarico tornò a proporre la fine della contesa, dicendosi disponibile ad un accordo in cambio di possedimenti nel Norico (Austria). Tuttavia Onorio rifiutò fermamente l'offerta, lasciando al Goto infuriato una sola possibilità, marciare su Roma.
Dopo poco tempo, poi, un attacco a sorpresa portato dal comandante romano Saro, cancellò ogni speranza di un'eventuale tregua. Grazie ad una mano complice dall'interno, la Porta Salaria risultò accessibile ed Alarico, con il suo esercito di 40.000 uomini, poté entrare agevolmente in città. Le chiese cattoliche non furono prese di mira, tanto che per molti rappresentarono l'unico rifugio, mentre i Goti, in cerca di denaro e beni preziosi, si accanirono sui templi pagani e sulle ricche abitazioni dei patrizi. Molte di queste case, insieme ad alcuni edifici pubblici, finirono per essere date alle fiamme. Lo storico Peter Heather nel suo libro: "La caduta dell'Impero Romano", sostiene che il sacco di Roma non era nelle intenzioni di Alarico, visto che era stato accampato fuori dalle mura della città per mesi, mentre avrebbe potuto assediarla in ogni momento. In realtà, il suo unico scopo era, e si può dire che lo fosse fin dall'inizio, rinegoziare l'alleanza con i Romani, siglandone una nuova al posto di quella del 382. Tuttavia, altri studiosi, valutano il sacco di Roma, in una prospettiva differente. Così, Heather scrive, molti non cristiani attribuirono la caduta della città all'abbandono degli antichi culti pagani, mentre sant'Agostino, parlando come esponente della Chiesa Cattolica, vide in essa un ammonimento all'atavico desiderio di dominio dell'Impero.
Conseguenze
I due decenni seguenti avrebbero portato drastici cambiamenti in Occidente. I Goti, dopo aver abbandonato la città di Roma, si stabilirono, alla fine, in Gallia. Allontanandosi dalla città, Alarico, essendosi ammalato, morì, lasciando al cognato il comando dei Goti. Il luogo della sua sepoltura non ci è noto. Ugualmente si verificarono cambiamenti al vertice in Occidente, prima in seguito alla morte di Onorio, avvenuta nel 423, e poi con la sconfitta da parte di Costanzo dell'usurpatore Costantino III. Il regno di Ataulfo non ebbe una lunga durata, poiché, dopo aver sposato Galla Placidia, morì, forse assassinato, nel 415, consentendo alla moglie di tornare verso le clementi braccia del fratello. Lì lei dovette andare in sposa a Costanzo ed il figlio nato dalla loro unione, sarebbe diventato imperatore d'Occidente col nome di Valentiniano III (425-455), ma non prima di raggiungere la maggiore età e, nel frattempo, Galla avrebbe esercitato il potere come sua reggente. Nel 476 il barbaro Odoacre e le sue truppe invasero l'Italia, giungendo fino a Roma, per deporre l'Imperatore Romolo Augustolo, ma in modo del tutto imprevedibile, il conquistatore non volle assumerne il titolo. Sebbene arbitrariamente, a causa di tale interruzione formale del titolo imperiale, il 476 sia indicato da molti storici come l'anno della fine dell'Impero Romano d'Occidente, fu proprio il sacco subito dalla città di Roma nel 410, ad avere degli effetti tanto dannosi da non consentirle più di riprendersi. L'Impero Bizantino, invece, sarebbe sopravvissuto fino alla conquista di Bisanzio ad opera dei Turchi Ottomani, avvenuta nel 1453.