Nella Roma antica, amore, sesso, e matrimonio erano definiti dal patriarcato. Il pater familias, a capo del parentado e della domus, esercitava completo controllo sulla moglie, sui figli e sul personale servile. Questo paradigma veniva in parte giustificato da una delle storie del mito fondativo di Roma: la fondazione dell'Urbe nel mitico 753 a.C. scaturiva dall'esercizio del controllo sulla vita di Remo da parte di Romolo, in un assassinio conseguente un litigio.
Subito prima o dopo quest'evento, il mito vuole i Romani attaccassero le tribù confinanti, rapendone le donne come mitizzato dalla tradizione del Ratto delle Sabine. Queste tribù contrattaccarono onde riappropriarsi delle proprie donne, ma una delle rapite — Ersilia, divenuta moglie di Romolo — si frammise tra i contendenti, difendendo la condotta romana e, incoraggiando le altre donne a fare altrettanto, scongiurando così uccisioni inutili. Che il racconto sia riconducibile o meno ad un evento storico, ciò che conta è che esso esemplifica, fondandolo miticamente, il paradigma della relazione maschio-femmina nella Roma antica: l'uomo esercitava il potere, e la donna doveva riconoscerlo e agire di conseguenza. La struttura sociale, così informata da religione e tradizione, dettava gli uomini approntassero le regole e le donne le seguissero.
Questo era il paradigma basilare circa l'amore, il sesso, e il matrimonio nell'antica Roma; e, quantunque vi fossero certamente eccezioni, le fonti provano inconfutabilmente che l'esperienza della maggior parte delle coppie sposate aderiva a questo modello. Quello che oggi chiameremmo amore romantico, quantunque riconosciuto e lodato dai poeti, non aveva che ruolo modesto in molti matrimoni; ma pure vi sono testimonianze di forti unioni basate su mutuo amore e rispetto. Il sesso quale espressione di amore passionale era frequentemente associato piuttosto alle relazioni extraconiugali, ma pare fosse componente importante anche di molti matrimoni. L'unione coniugale era considerata fondamenta della società non solo eticamente, ma, come in numerosi casi del patriziato e del ceto abbiente, anche economicamente, quale sorta di transazione commerciale che riconosceva al sesso lo scopo di produrre prole, e all'amore romantico un'aura di lusso non permessa che a pochi — gli altri, apparentemente, dovevano farne a meno.
L'amore nell'antica Roma
Quantunque l'amore romantico tra marito e moglie consti di cospicue attestazioni epistolari ed epigrafiche, considerevole parte di ciò che ci è noto circa l'amore nell'Urbe viene dalla poesia celebrante le donne o i ragazzi con i quali i poeti avevano rapporti sessuali — generalmente una relazione extraconiugale per una o entrambe le parti coinvolte. A tal riguardo, il più celebre poeta fu Catullo (85 – 54 a.C. circa), 25 delle cui sopravvissute composizioni sono indirizzate all'amante Lesbia — pseudonimo dato a Clodia, moglie del politico Quinto Cecilio Metello Celere (100 – 59 a.C. circa).
Il matrimonio di Celere e Clodia era infelice, e i due solevano sovente litigare in pubblico — ben altrimenti che con la passione che sappiamo ella nutrisse per il proprio amante. Le poesie di Catullo per Lesbia istanziano un'adorazione esemplare, e nutrono la speranza ella abbandoni il marito per vivere con l'autore. Così in quinto carme:
Godiamo, o Lesbia, mia Lesbia, amiamo,
E de' più rigidi vecchi i rimproveri
Meno d'un misero asse stimiamo.
Tramontar possono gli astri e redire:
Noi, quando il tenue raggio dileguasi,
Dobbiam perpetua notte dormire.
Baciami, baciami, vuo' che mi baci;
A cento scocchino, a mille piovano
Qui su quest'avida bocca i tuoi baci.
E poi che il numero sfugge a noi stessi,
Baciami, baciami, sì che l'invidia
Non frema al còmputo de' nostri amplessi.
(Trad. Mario Rapisardi, 1889)
Le speranze di Catullo erano tuttavia vane: Clodia non avrebbe potuto facilmente divorziare dal marito onde unirsi ad un altro uomo; il divorzio era sì pratica socialmente accettabile, e poteva essere intrapreso da ambo le parti, ma i motivi occorreva soddisfacessero le norme sociali — ad esempio l'infertilità della moglie, o abuso o abbandono da parte del marito. L'adulterio poteva essere motivo di divorzio, ma non poteva certo essere addotto da una moglie anch'essa invischiata in una relazione extraconiugale. Giunto al potere, Augusto (r. 27 a.C. – 14 d.C.) promulgò leggi sull'adulterio che di fatto avrebbero anzi potuto permettere a Celere di uccidere Clodia e l'amante
Altri poeti uomini, come Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.) espressero simili sentimenti per amate sposate o comunque inottenibili. Alcuni degli esigui componimenti circa l'amore romantico che differiscono da questo paradigma ci sono stati però lasciati dall'unica poetessa romana la cui opera è giunta a noi: Sulpicia, figlia dell'oratore Servio Sulpicio Rufo (106 – 43 a.C. circa); ella dedica le sue liriche amorose all'amato giovane Cerinto — quasi certamente uno pseudonimo, considerando come ella stessa ci dice la famiglia non approvasse l'unione. E tuttavia ella vive della speranza di essere con l'amato, un giorno. Nel carme I sono espressi i sentimenti dell'inizio della relazione:
Finalmente è giunto l'amore, un amore tale che per me causa sarebbe di maggior vergogna più la reputazione di averlo tenuto nascosto che non quella di averlo a qualcuno svelato.
Invocata dalle mie Camene ispiratrici, Citerea lo ha quivi recato deponendomelo in seno. Venere ha mantenuto le sue promesse; e le mie delizie finiscano pure sulla bocca di colui che sarà detto non averne di proprie:
non m'importa confidare alcunché a tavolette sigillate per tema che qualcuno legga prima del mio amato; ché mi aggrada peccare, e mi dà tedio atteggiare il volto
alla buona reputazione: che mi si dica esser stata, io degna di lui, con uno degno di me.
(Traduzione dal latino del traduttore; nell'orig. Ing. da Harvey, 77)
Sfortunatamente, come i suoi componimenti successivi chiarificano, la relazione non durò perché Cerinto le fu infedele; ed ella così lo castiga per averla ingannata: “Abbi pure maggior cura della toga della puttana che un paniere maggiore e più dilettoso di quello di Sulpicia, figlia di Servio, reca!” (carme IV; traduzione dal latino del traduttore; nell'orig. Ing. da Harvey, 77). Non è noto cosa sia successivamente stato di Sulpicia, ma, volendo attenersi ai dettami del paradigma patriarcale romano, va presupposto venisse data in sposa a qualche altro giovane non inviso al padre. Lo studioso Brian K. Harvey così commenta, circa la condizione e la vita femminile nell'antica Roma, in rapporto a quelle maschili:
Diversamente dalle virtù degli uomini, le donne venivano lodate per la loro vita domestica e matrimoniale; le loro virtù includevano fedeltà sessuale (castitas), la decenza (pudicitia), l'amore per il marito (caritas), la concordia maritale (concordia), la devozione alla famiglia (pietas), la fertilità (fecunditas), la bellezza (pulchritude), la gaiezza (hilaritas), e la felicità (laetitia)… Come esemplificato dal potere esercitato dal pater familias, Roma era società patriarcale. (59)
I mariti, o i maschi in generale, non erano tenuti a questi stessi standard di virtù, e questo valeva tanto per il sesso quanto per qualsiasi altro aspetto delle relazioni uomo-donna.
Il sesso nell'antica Roma
Le relazioni erano altresì definite ed esemplificate dalle coppie dei dodici dèi, noti collettivamente come Dii Consentes (o Dei Consentes — il consesso divino deliberante con Giove, assimilazione di altrettanti etruschi e dei meglio noti olimpi Dodekatheon greci), i quali deliberavano anche circa l'appropriato comportamento sessuale e coniugale umano. Le sei coppie erano:+
La religione era affare di stato — questo onorava gli dèi e quelli lo benedivano — e, pertanto, l'aderenza ai modelli divini era considerata vitale per la salute e la prosperità dell'Urbe. L'esempio più noto di questo concetto era l'ufficio delle vergini vestali, donne al servizio della dea Vesta e che facevano voto di castità per tutta la durata dell'incarico. Il modello dei Dii Consentes riconosceva il primato delle divinità maschili, le quali erano secondo il mito libere di intrattenere rapporti extraconiugali — laddove non lo erano invece le consorti/controparti; e anche a questo aspetto il paradigma delle relazioni sessuali nell'antica Roma si conformava.
Vesta (la più celebre dea casta) e le altre figure divine femminili preservavano la loro virtù e onoravano i propri consorti (o le proprie controparti), ma un'uguale condotta nelle divinità maschili sarebbe stata ritenuta non virile; i cittadini maschi erano liberi e anzi quasi ci si attendeva per consuetudine ordissero legami esterni al matrimonio con altre donne, con ragazzi, e uomini — a patto che questi partner non fossero liberi cittadini romani. La sessualità era ritenuta normale aspetto della vita, e non v'era distinzione tra rapporti eterosessuali e omosessuali, né v'era una consapevolezza linguistica d'una alterità dell'omosessualità rispetto all'eterosessualità; tutto ciò a condizione che ambo le parti fossero consenzienti. Festività celebranti la fertilità come i Lupercali includevano pubbliche manifestazioni di sessualità, e un posto d'onore era accordato alle prostitute. La sessualità diventava affare di stato solo quando le scelte di un individuo rischiavano minacciare lo status quo; in quattro istanze particolari, una violazione della norma comportava conseguenze legali:
- castitas: le donne che avevano intrapreso una vita di castità (come per le vergini vestali) non potevano rescindervi, pena una punizione severa, consuetudinariamente capitale;
- incestum: era proibito “violare” un familiare, un libero cittadino romano, una vergine vestale, o chiunque altro avesse scelto di restar casto;
- raptus: era proibito rapire una persona con l'intento più o meno scoperto di interagirvi sessualmente — il crimine era anzi ascritto anche alla “rapita” che, acconsentendo a una fuitina, si era di fatto sottratta alla patria potestas;
- stuprum: era proibito stuprare o intrattenere un'impropria condotta sessuale extraconiugale con un altro libero cittadino romano.
Fatte salve le violazioni di queste norme e tabù, era ai cives permesso dedicarsi a ogni genere di pratica sessuale desiderassero. I problemi di coppia erano di responsabilità degli stessi partner, e, in caso di incomprensioni e liti domestiche (che il problema fosse o meno di natura sessuale), era possibile appellarsi alla dea Viriplaca — “Placatrice [dell'ira] dell'uomo”, un aspetto/epiteto di Giunone — presso il suo tempio sul colle Palatino: marito e moglie potevano a turno esplicitare il caso alla sacerdotessa-terapista di coppia ante litteram, e questo veniva risolto, anche se spesso in favore del marito.
Uomini sposati indulgevano in frequenti visita alle lupae presso i lupanari o comunque ne incontravano a convivia e durante i dies festi. Il meretricium sia femminile che maschile (scortum, exoltus) era non solo normato dalla legge (licentia stupri, vectigal ex capturis) ma altresì considerato consuetudinario servizio sociale come nettezza urbana e pulizia delle latrine. Chi si prostituiva generalmente apparteneva o era considerato appartenere ai ceti economicamente e/o moralmente bassi — lo stesso era per danzatori, attori, gladiatori, cantanti. Status rispettabile era riservato a coloro che ben s'incasellavano nel paradigma della gerarchia sociale, e questi erano quasi esclusivamente individui sposati.
Il matrimonio nell'antica Roma
La cerimonia matrimoniale differiva da quella odierna. Quantunque l'unione avesse legalità esclusivamente tra due cittadini romani consenzienti, non è detto il consenso fosse sempre accordato liberamente: se il padre aveva combinato il matrimonio di un figlio o una figlia, a men che non fosse egli particolarmente indulgente e permissivo, ci s'aspettava questi acconsentissero volenti o nolenti. I tipi di matrimoni considerati legalmente vincolanti a Roma erano tre:
- la confarreatio, così chiamata per la comunione d'una focaccia di farro con Giove, era il tipico matrimonio patrizio; e anche nota per la distinzione dal matrimonio sine manu (in cui il marito non acquisiva potestas sulla moglie) — la mano essente quella della sposa che il padre passa materialmente dalla sua a quella dello sposo;
- la coemptio — alla lettera “per acquisto”, era il matrimonio plebeo il quale, originariamente, sanciva una vera e propria compravendita della donna, quale che fosse la natura o la somma del prezzo pagato alla famiglia di lei;
- l'usus — un matrimonio plebeo in cui, dopo lunga convivenza, il compagno “usucapiva” la manus della compagna.
La descrizione qui di seguito segue la tradizione della confarreatio.
Prima del rito si praticava l'aruspicina, e la casa paterna della sposa era adornata di fiori; se il responso dell'aruspex era positivo, la cerimonia poteva precedere, e gli sposi erano condotti insieme nell'atrium, la stanza pubblica della casa dov'erano raccolti gli invitati. Le cerimonie avvenivano consuetudinariamente appena dopo l'alba, a simboleggiare la nuova vita in cui si avventurava la coppia.
Alla cerimonia, perché fosse legale, erano presenti e necessari dieci testimoni, e, quantunque un sacerdote era presente, non officiava il rito. Una matrona si avvicinava, e univa le mani della coppia; e la sposa pronunciava la formula “Ubi tu Gaius, ego Gaia.” (“Dove e quando tu, Gaio, così io, Gaia” — Nardo, 76), la quale, quali che fossero i nomi degli sposi, sempre identicamente simboleggiava l'ingresso della moglie nella casa del marito. La coppia poteva dunque sedere, e il sacerdote offriva a Giove (o, successivamente, a Giunone) una focaccia di farro poi condivisa al termine del rito.
Successivamente, ci si congratulava con la nuova coppia e venivano praticati ulteriori rituali propiziatori che apportassero fortuna e un matrimonio felice. Gli invitati dunque si univano in un grande banchetto a conclusione del quale una vera e propria torta nuziale ante litteram era divisa tra tutti perché se ne recasse un pezzo a casa. Il corteo nuziale seguiva la sposa e lo sposo presso la nuova dimora (o la casa paterna dello sposo). Questa processione è così descritta dallo studioso Harold W. Johnston:
Il corteo era una funzione pubblica, e chiunque poteva prender parte alla festosità che lo caratterizzava; le fonti ci presentano individui anche di rango i quali non si facevano scrupolo d'indugiare per istrada solo per vedere la sposa e accodarsi. Con l'avvicinarsi della sera, il corteo si assembrava, capeggiato da una fiaccolata e suonatori di flauto, sotto casa della sposa. Quando tutto era pronto, l'inno nuziale (epitalamio) era cantato, e lo sposo fingeva di sottrarre a forza la sposa dalle braccia della madre. Ciò era per gli antichi romani in reminiscenza del Ratto delle Sabine, ma è probabile che il gesto simbolico anteceda la fondazione dell'Urbe e affondi nell'uso, prevalente presso molti popoli, di matrimonio per cattura. La sposa si accodava dunque al corteo. (Nardo, 78)
Era uso costei, procedendo, lasciasse cadere una moneta in offerta ai viales (i lari delle strade) perché l'assistessero con fortuna lungo il futuro percorso matrimoniale; e desse due monete al marito, una in suo onore e una in onore delle divinità domestiche della sua casa. Lo sposo lanciava noci e dolciumi alla folla, e il corteo ne distribuiva ulteriormente — un rituale che l'odierno lancio di riso riecheggia. Infine si raggiungeva la casa dello sposo.
Una volta là giunti, questo sollevava in braccio la moglie e la conduceva attraverso l'uscio — “un'altra reminiscenza”, come suggerito dal Johnston, “del matrimonio per cattura” (Nardo, 79); oppure una semplice accortezza per evitare la sposa inciampasse, o ancora la ritualizzazione del gesto materiale di sottrarla dalla sua vecchia vita e condurla più per lei agevolmente nella nuova. Seguivano amici intimi e familiari, e all'interno della domus il marito offriva simbolicamente gli elementi essenziali di fuoco e acqua alla sposa, cui spettava accendere la prima fiamma nel focolare domestico. Ulteriori festeggiamenti concludevano la serata, prima che la coppia si ritirasse per la notte.
L'età minima per una ragazza da marito era di dodici anni — quantunque l'età minima fosse per i ragazzi di quindi anni, la maggior parte degli uomini non si sposava che intorno ai 26. Ciò perché si riteneva i maschi fossero mentalmente sbilanciati, tra i 15 e i 25 anni, verso una passione predominante e debilitante nel compiere decisioni solide. Le ragazze erano credute maturare prima (un'opinione, mutatis mutandis, ancora relativamente accettata oggi) ed essere dunque pronte alle responsabilità del matrimonio ad un'età spesso considerevolmente più giovane di quella del marito.
Conclusioni
Il matrimonio era, almeno tecnicamente, fondato sulla monogamia, ma il divorzio era accettabile e non stigmatizzato — gli poteva anzi seguire, parimenti accettabile quanto consuetudinario, un secondo matrimonio. Durante l'era repubblicana (509 – 27 a.C.) il divorzio era meno comune di quanto lo sarebbe successivamente diventato sotto l'impero (27 a.C. – 476 d.C.); l'istituto matrimoniale perse invece popolarità durante il periodo imperiale, e il tasso di natalità tanto calò che Augusto promulgò leggi accordanti speciali privilegi alle coppie sposate con almeno tre figli.
Quantunque il matrimonio venisse inteso più quale contratto sociale che come espressione di mutuo amore, c'erano senza dubbio molte unioni fondate sul sentimento. In una lettera ad un amico, Plinio il Giovane (61 – 113 d.C.) ci testimonia la morte di una moglie in una coppia innamorata:
Un grave colpo ha ricevuto il nostro Macrino. Egli ha perduto una moglie esemplare […] Visse con lei per trentanove anni senza litigio od offesa. Oh, che rispetto aveva ella per il marito, e quanto ne meritava lei stessa! Oh, quante e quali virtù, proprie delle diverse età, aveva in sé raccolte e mischiate! Che grande conforto per Macrino l'aver posseduto un tal bene così a lungo; ma tanto più si addolora di averlo perduto; inquanto dal godimento dei piaceri aumenta il dolore di perderli.
(epistola VIII, 5; traduzione dal latino del traduttore; nell'orig. Ing. da Harvey, 50).
Quantunque il patriarcato romano controllasse come il matrimonio era definito e osservato, e sebbene era consuetudinario gli uomini intrattenessero rapporti extraconiugali, c'era purtuttavia spazio per relazioni oneste ed amorevoli basate sulla fiducia e l'affezione in comune tra mariti e mogli. È vero le donne non godessero della parità che è loro diritto, ma molte cogliamo nelle fonti condurre ciò nonostante vite soddisfacenti e felici, spesso confortate dall'amore, dal rispetto e dall'ammirazione del marito.