Nell'antica Roma, alla stregua di altre culture, i cani erano molto importanti e, come in Egitto e in Persia, venivano utilizzati per cacciare, fare la guardia o per compagnia; tuttavia vi era una differenza significativa in termini di obiettivi.
Come gli Egizi, i Romani creavano collari artistici per cani, alcuni dei quali d'oro, e, sebbene non fossero presenti nell'aldilà romano (come per i Persiani), i cani venivano considerati la migliore protezione contro i fantasmi o gli spiriti maligni. A differenza di altre culture, tuttavia, i romani vedevano i cani in modo molto più pragmatico.
La cultura romana, in generale, era più radicata rispetto ad altre, e il modo di considerare e trattare i cani veniva adattato ad un tale paradigma. Un collare per cani in Egitto era espressione dello spirito individuale dell'animale; a Roma, anche se d'oro, il collare aveva uno scopo puramente pratico.
Il cane era un compagno, un guardiano, un cacciatore, un combattente professionista, un segugio, un compagno di guerra e in alcune epoche veniva offerto in sacrificio agli dei. Serviva a scaldarsi di notte, avvertiva il padrone della presenza di spiriti invisibili e veniva regolarmente raffigurato nei miti e nelle leggende romane in ruoli pratici.
Allevati e utilizzati dagli Etruschi in Italia prima dell'ascesa di Roma (non è chiaro come gli Etruschi li considerassero), i cani erano parte di ogni aspetto della vita dei Romani, i quali li curavano come se fossero membri della famiglia e ne onoravano la morte con tombe ed epitaffi.
I cani nel mito e consigli pratici
Il cane e l'antenato lupo, avevano una lunga storia legata al mondo romano, come dimostra il famoso racconto dei mitici fondatori della città. Si dice che Romolo e Remo siano stati allattati da una lupa, che Remo sia stato ucciso e che Romolo abbia fondato Roma nell'aprile del 753 a.C.. Il mito conferisce un'origine divina alla città, tuttavia, per quanto riguarda i cani, ne preannuncia la successiva comparsa in una serie di importanti miti e racconti romani in cui rivestono lo stesso tipo di funzione pratica della lupa.
La dea Diana, cacciatrice, viene spesso vista con i propri cani e uno dei racconti più conosciuti di Ovidio (43 a.C. - 17 d.C.) parla di Diana e di Atteone, giovane cacciatore che paga con la vita un'imprudenza accidentale. Durante una battuta di caccia, Atteone si imbatte nella dea mentre fa il bagno, per assicurarsi che non racconti mai ciò che ha visto, lo trasforma in un cervo che viene ucciso dai cani da caccia che lo accompagnavano. In questo caso, il cane svolge il ruolo di protettore e vendicatore. Atteone viene punito per aver visto ciò che nessun mortale dovrebbe vedere e solo gli dei custodiscono il mistero del divino.
Anche Trivia (la versione romana della greca Ecate), la dea dei fantasmi, dei cimiteri, della stregoneria e degli incroci, veniva associata ai cani, i quali, nonostante l'approccio silenzioso e invisibile, potevano vederla e udirla. Come nel caso di Ecate, si credeva che, quando un cane abbaiava apparentemente al vuoto, in realtà avvertisse la famiglia dell'avvicinarsi di Trivia o di uno dei fantasmi.
Lo scrittore romano Varrone (116-27 a.C.) fu tra i primi autori a trattare il tema dei cani su un piano puramente pratico. Secondo lo scrittore ogni casa, soprattutto una fattoria, doveva avere un cane da guardia e uno da caccia. Varrone sottolineava l'importanza del cane da guardia e seguiva la prassi greca secondo cui doveva essere di colore bianco per distinguerlo chiaramente da un lupo nella notte. Suggeriva inoltre di dotare i cani di un collare spesso e borchiato (noto come melium) per proteggere la gola dagli attacchi dei lupi. Il collare di melium, sosteneva Varrone, impediva i futuri attacchi dei lupi ai cani, anche se sprovvisti di collare, in quanto una volta provato il dolore del melium avrebbero imparato a temerli.
Nemesiano (283 ca.), uno degli scrittori latini tardivi, affrontò, insieme a Varrone e molti altri, il tema dei cani e di come venivano utilizzati. Nemesiano dispensò consigli di epoche precedenti nei suoi Cynegetica ("Sulla caccia") suggerendo i modi migliori per allevare un cane (a partire dall'inizio dell'anno) e per sapere riconoscere i cuccioli degni di maggiore attenzione. Nemesianus sosteneva che una grande cucciolata affaticava la madre e che alcuni di scarsa qualità potevano sottrarre cibo ai cani superiori.
Suggeriva quindi di creare un anello di fuoco intorno ai cuccioli, con la madre dall'altra parte delle fiamme, la quale avrebbe salvato per primi i più forti e era possibile quindi concentrare la propria attenzione su di loro a scapito dei fratelli più deboli (Cynegetica di Nemesiano, 497). Non si sa se questo consiglio sia stato seguito, tuttavia l'allevamento dei cani a Roma, soprattutto per la caccia, era considerato un affare serio e i cani di alta qualità erano molto ricercati.
Razze popolari
Tra le razze più popolari c'era il Vertragus, un cane da caccia di eccezionale velocità e abilità, di cui viene apprezzata anche la bellezza. Lo scrittore Graziano (63 a.C. - 14 a.C.) elogia il Vertragus per le caratteristiche raffinate, ma soprattutto per l'incredibile velocità, scrivendo che corre "più veloce del pensiero o di un uccello alato", cosicché i cacciatori potevano ora inseguire la selvaggina a cavallo preceduti dai cani, in contrapposizione al più scomodo metodo di caccia che prevedeva i segugi laconiani i quali si muovevano più lentamente (Cynegeticon, 171). Il Vertragus (antenato del moderno Levriero italiano) fungeva da cane da guardia oltre che da caccia e forniva al proprietario un ulteriore vantaggio: il calore. I proprietari dormivano con il proprio Vertragus perché i cani emanavano una notevole quantità di calore.
Un'altra razza, più popolare tra donne e bambini, era il Canis Melitae o Melitan (maltese), meglio conosciuto tra gli antichi romani perché riusciva a dormire comodamente sul grembo del proprietario, di conseguenza era noto come cane da compagnia. Il Melitan rappresentava uno status symbol, in quanto solo l'alta borghesia poteva permettersene uno; oltre a fornire calore e compagnia, si pensava che riuscisse ad allontanare le pulci dai padroni. Il Melitan potrebbe essere la razza di cane di cui si parla con tanto amore nell'epitaffio di una tomba datata intorno al 100-200. L'iscrizione recita:
Bagnato di lacrime ti ho portato in braccio, nostro cagnolino, come in circostanze più felici, ho fatto quindici anni fa. Così ora, Patrice, non mi darai più mille baci né potrai stenderti affettuosamente intorno al mio collo. Eri un buon cane e, con dolore, ti ho messo in una tomba di marmo e legandoti a me per sempre quando morirò. Con i tuoi modi intelligenti uguagliavi facilmente un essere umano; ahimè, che animale domestico abbiamo perso! Tu, dolce Patrice, avevi l'abitudine di farci compagnia a tavola e di domandare fulmineamente cibo poggiato sul grembo, eri abituata a leccare con la lingua avida la tazza che le mie mani spesso tenevano per te e, puntualmente, ad accogliere scodinzolante il tuo stanco padrone. (Courtney, n. 204, Inscr. It. I.1.228=CLE 1176)
I Melitani divennero popolari soggetti per i chous, recipienti greci per bere in ceramica solitamente decorati, su cui venivano raffigurati con e senza collare. Un chous di Atene, noto come Cane melitano con uva, datato al 450-435 a.C., mostra un melitano con un collare sottile e leggermente ornato. Si tratta di collari stretti e delicati, talvolta ornati da campanelli. Simili ai collari utilizzati per il Vertragus quando non era a caccia; in caso contrario, il Vertragus indossava un collare a spillo o uno spesso collare di cuoio.
Collari per cani e fibbie
La velocità del Vertragus incoraggiò i Romani a farli gareggiare, sviluppo che portò alla realizzazione di un collare in cuoio leggero e di un guinzaglio dello stesso materiale, il lyam, che passava attraverso un anello di metallo posto sul collare, con le due estremità tenute in mano dal proprietario o dal conduttore. I collari in metallo erano considerati troppo pesanti per i segugi da corsa e, inoltre, macchiavano il collo dell'animale di un grigio poco attraente.
I collari da corsa venivano dipinti in colori vivaci per identificare facilmente il cane vincitore. All'inizio della gara, i cani venivano allineati con i conduttori che, ad un segnale, lasciavano andare un'estremità del guinzaglio rilasciando il cane sulla pista. Arriano (86-160 ) descriveva i collari con anello metallico, senza tuttavia, menzionare il modo in cui venivano fissati. Potevano inoltre essere dotati di fermagli o addirittura fibbie.
Plinio il Vecchio (23-79) citava nelle proprie opere collari per cani molto più elaborati e costosi, sostenendo che un collare d'oro serviva a calmare il cane e lo tratteneva dall'abbaiare incessantemente e inutilmente. I collari d'oro erano tenuti da fermagli che si incastravano tra loro nei quali veniva inciso il nome del padrone e, talvolta, con una frase arguta relativa alla personalità del cane. Tale usanza svolgeva la stessa funzione del collare indossato dagli schiavi in tutta Roma, sui quali veniva riportato il nome dello schiavo e del proprietario, compreso l'indirizzo di quest'ultimo. I collari degli schiavi, ovviamente, erano tutt'altro che dorati, una distinzione che rappresentava la norma a Roma, poiché i cani venivano quasi sempre trattati meglio degli schiavi.
Columella (4-70), un altro scrittore romano, sosteneva che il cane era l'aspetto più importante del possedere una casa e il primo acquisto da fare una volta stabilita la residenza. Lo scrittore riprendeva il consiglio di Senofonte (430-c. 354 a.C.) di limitare il nome del cane a una o due sillabe per facilitarne l'addestramento "in modo che ciascuno obbedisca più rapidamente quando viene chiamato", ma scoraggiava le persone (in particolare i contadini) dal possedere cani da caccia, dal momento che quest'ultima distraeva il cane dalla casa e dai doveri per seguire l'istinto di cacciare. (Sull'agricoltura, libro VII.xii.13).
Columella sottolineava l'importanza di possedere un cane per custodire la fattoria, la casa, il raccolto e il bestiame. Suggeriva inoltre che i cani da guardia fossero di due colori diversi: un cane bianco per proteggere i terreni di notte, facilmente distinguibile da un lupo o da un altro predatore, e un cane nero per intimidire i ladri di giorno ed essere invisibile agli stessi di notte. Proponeva nomi specifici per i cani, come Ferox ("selvaggio") o Celer ("veloce"), che dovevano adattarsi alla personalità individuale del cane, nonché servire ad avvertire gli estranei di ciò per cui il cane era conosciuto.
I Romani inventarono la fibbia da utilizzare nell'equipaggiamento militare (anche se l'idea potrebbe provenire dalla Cina) e in seguito comparì sui collari per cani. Non è chiaro quando ciò avvenne, ma fu prima del 79, all'epoca dell'eruzione del Vesuvio che seppellì le città di Pompei ed Ercolano. Un cane ritrovato tra le rovine di Pompei indossava un collare con fibbia su cui era inciso un elogio per aver salvato la vita del padrone dall'attacco di un lupo. Il collare più diffuso, tuttavia, era a punte metalliche di origine greca, utilizzato nella caccia, per i cani da guardia e soprattutto nell'arena per i combattimenti tra cani.
Cani da guerra
Il molosso (probabilmente l'antenato del mastino napoletano) era una delle razze da combattimento preferite, veniva dotato di un grande collare a spillo, ed era anche la razza che accompagnava l'esercito romano nelle conquiste in tutto il Mediterraneo e oltre. Si pensa che il molosso fosse allevato appositamente per il combattimento e che era il principale cane da guerra dei Romani, anche se non l'unico.
Nel 231 a.C., il console romano Marco Pomponio Matone intraprese la campagna in Sardegna che il fratello non era riuscito a portare a termine. I Sardi misero in atto la guerriglia, colpendo le legioni romane e poi nascondendosi in grotte e boschi. Secondo lo storico Zonaras (1074-1130 ), Marco Pomponio "fece arrivare dall'Italia cani dall'olfatto sopraffino" che furono in grado di seguire i Sardi fino ai nascondigli e di allertare i conduttori che li seguivano. La campagna si protraeva da anni senza mostrare alcun segno di risoluzione, finché non vennero introdotti i cani. Marco Pomponio si assicurò la vittoria e poté tornare a Roma in trionfo.
Non si conosce la razza precisa dei "cani dall'olfatto sopraffino" utilizzati da Marco; si pensa che fossero segugi, forse il Vertragus. Il molosso, tuttavia, secondo quanto riportato, veniva considerato il più formidabile cane da guerra dei Romani. Si dice che i cani costituissero spesso una compagnia a sé tra le truppe e che fossero protetti da armature e da spessi collari metallici a spillo, utilizzati in passato per difendere i cani dai lupi.
Sebbene vi siano prove dell'uso dei molossi come cani da guardia negli accampamenti e come messaggeri, vi è una certa confusione riguardo all'impiego durante la battaglia. La scrittrice Ria Horter di The Canine Chronicle, ad esempio, cita uno studioso di nome Dr. Robert van der Molen che sosteneva di aver dato prova che i cani non furono utilizzati in battaglia nel mondo antico. Horter citava l'opera di Molen, Dogs in the Greek and Roman World, per affermare che i cani non furono mai combattenti regolari sul campo.
L'affermazione, tuttavia, viene contestata da autori che segnalano la presenza in prima linea di compagnie militari di molossi sotto la guida di conduttori romani. Inoltre, fonti antiche come Plinio il Vecchio, Plutarco, Polibio e altri scrivono di diversi tipi di cani utilizzati nell'esercito romano in epoche diverse: canes pugnaces (cani da attacco con cotta di maglia e collari chiodati, anche il principale cane da combattimento nell'arena), canes villatica (cani da guardia), canes nare sagaces (cani da inseguimento) e canes pedibus cleres (cani da caccia), tra gli altri.
La razza nota come Cane Corso veniva sicuramente utilizzata in battaglia. Si trattava di un grande mastino regolarmente utilizzato come cane da guardia; il nome stesso, infatti, può essere tradotto come "cane da guardia". Secondo lo scrittore greco Polibio (200-118 a.C.), il Cane Corso veniva talvolta utilizzato come pirifero (portatore di fuoco) sul campo di battaglia. I Romani legavano secchi di olio infuocato al dorso dei cani e li rilasciavano verso le prime linee della cavalleria avversaria.
Il Cane Corso è molto probabilmente il cane spesso raffigurato nelle incisioni antiche, poiché veniva scelto come cane da fattoria per proteggere la casa e il bestiame e come cane da caccia, di conseguenza era una figura familiare nell'uso popolare. Negli scritti successivi la razza veniva essere associata apparentemente al molosso.
Giulio Cesare, invadendo la Britannia nel 55 a.C., incontrò l'opposizione di guerrieri celtici con i loro cani, spesso identificati con il mastino inglese, ma Cesare stesso non li nominava mai. Gli storici ritengono più probabile che Cesare abbia affrontato i molossi, portati in Britannia dai commercianti cartaginesi. I molossi si sarebbero incrociati con la popolazione canina locale per dare origine al mastino, ma sembra improbabile che il mastino fosse già una razza presente in Britannia quando Cesare vi arrivò.
Conclusione
L'utilizzo che Marco Pomponio fece dei cani durante la guerra romana e il resoconto di Polibio sul Cane Corso sembrano contraddire l'affermazione di van der Molen citata da Horter. I Romani tenevano in grande considerazione i cani e vennero scritte molte opere sull'allevamento, l'addestramento e la cura degli animali. Non sarebbe sorprendente che i Romani, sempre pratici, abbiano utilizzato i cani in combattimento.
I Romani facevano molto affidamento sui propri cani per assisterli e proteggerli nella vita quotidiana e quindi, sebbene possa sembrare una contraddizione per un pubblico moderno, non sorprende che i cani venissero anche offerti in sacrificio agli dei. Come in altre culture, i Romani sacrificavano il meglio di ciò che avevano, non ciò di cui potevano facilmente fare a meno, e i sacrifici di cani ne sono il miglior esempio.
Allo stesso modo, il cane da combattimento - che fosse nel Colosseo o in un ring locale - era tutt'altro che mal utilizzato ma, piuttosto, molto onorato e ben curato. La reputazione e, spesso, il sostentamento del proprietario dipendevano dalle prestazioni del cane in combattimento e i cani ricevevano cure e attenzioni migliori di molti schiavi o persino di alcuni membri della famiglia.
Esistono prove che i cani potevano essere visti in una luce negativa - i Romani, dopo tutto, coniarono l'espressione dies caniculares - "i giorni canicolari dell'estate" - associando i cani a un caldo insopportabile a causa del loro legame con Sirio, la stella del cane, che era prominente durante la stagione; tuttavia, le associazioni positive superano di gran lunga le negative. La rappresentazione più frequente del cane nell'antica Roma è di servo fedele, guardiano fidato e sempre compagno fedele.