Gregorio Magno (540-604) è ricordato come uno dei papi più importanti ed influenti dell'Alto Medioevo. Famoso per la sua abilità amministrativa, realizzò in tempi di "oscurantismo, superstizione e credulità" (Gonzalez, 288) quelle riforme che contribuirono a fare della Chiesa cattolica un pilastro della società europea nei secoli seguenti. Come ha scritto lo storico Moorhead: "Il suo papato è riconosciuto come uno dei maggiori della storia, tanto che dalla fine del IX secolo egli è noto con l'appellativo di Magno, il titolo con cui ancora oggi è onorato".(1)
Regola Pastorale
Uno tra i più noti dei suoi scritti è il trattato intitolato Regola pastorale (conosciuto anche col nome latino Liber Regulae Pastoralis), che nei quattro libri in cui è suddiviso, fornisce ai vescovi ed ai presbiteri una perfetta guida su come condurre saggiamente ed alla luce delle sacre scritture, le comunità di fedeli loro affidate, gestendo, secondo morale, le proprie vite. Gregorio, nella sua opera, presenta l'insegnamento del Papa riguardo ai requisiti, ai comportamenti, alle scelte ed alle attività da tenersi per essere un buon pastore, o, utilizzando le sue stesse parole: "Medico dell'anima". (Libro I, Cap. 2)
Gregorio ritiene che il pastore sia istituito per il bene del suo gregge, non il contrario, come troppo spesso egli vedeva accadere nella società medievale. MacCulloch osserva:
Gregorio, grazie alla sua esperienza monastica, era ben conscio che il ministero esercitato attivamente nel mondo, poteva dare al clero maggiori opportunità di realizzare progressi spirituali di quanto potesse farlo in un monastero, proprio perché era oltremodo difficoltoso mantenere una serenità contemplativa ed al contempo la facoltà di esporre la Buona Novella, tra le difficoltà e la confusione della vita quotidiana. (328-329)
All'inizio della Regola pastorale Gregorio si esprime con le seguenti parole: "Pertanto, sia il timore a moderare il desiderio; dopodiché, sia la condotta di vita a confermare un'autorità di cui è caricato chi non la cercava." (Libro I, intro.) Non è necessario ribadire che nella chiesa medievale il pastore esercitava un'ampia influenza; con la parola o con i fatti egli poteva, direttamente o indirettamente, infliggere pene sia spirituali sia corporali ad ognuno dei suoi fedeli (fino a causarne la morte). Ragion per cui era opportuno, per chi rendeva il suo servizio alla guida delle comunità, tenere un atteggiamento caritatevole. Nel pensiero di Gregorio, similmente a come un medico si preoccupa e si prende cura della salute e del benessere del suo o della sua paziente, il pastore, accudendo il gregge della sua chiesa, deve essere previdente e protettivo.
Equilibrio tra guida e fiducia
Inoltre, un pastore insensibile, benché si ritenga che egli sia un medico santo, potrebbe "intorbidare l'acqua a cui attinge" [si legga: l'insegnamento n.d.t.] (Libro I, Cap. 2) affliggendo i membri della comunità da lui colpiti, al posto di dare una limpida soluzione, spiritualmente o biblicamente ispirata, al problema. Senza uno studio mirato ed esperienze pratiche, il pastore inconsapevole o a corto di argomentazioni, potrebbe trasformarsi in una dannosa pietra d'inciampo, piuttosto che nel buon pastore che porta i peccatori verso la Buona Novella. Gregorio sprona i suoi lettori a cercare un salvifico bilanciamento dell'autorevolezza nella guida, senza farla essere una direzione egocentrica. Il pastore, quindi, non dovrà essere né troppo indulgente né troppo aspro con i componenti della sua comunità meritevoli della correzione. Così egli scrive a riguardo:
Bisogna cioè aver cura che la pietà faccia apparire ai sottoposti madre colui che li guida, e la disciplina lo mostri, invece, como padre. E pertanto bisogna provvedere con pronta ed avvertita prudenza che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva. (Libro II, Cap. 6)
Riguardo ai pastori ed alle loro comunità, la fiducia era un altro fattore fondamentale per Gregorio, particolarmente in considerazione delle tante persone che dipendevano da lui. Ed egli dice in merito:
[Un pastore dovrebbe essere] puro nel pensiero, esemplare nell'agire, discreto nel suo silenzio, utile nel parlare; sia, poi, vicino a ciascuno con la sua compassione e sia, più di tutti gli altri, dedito alla contemplazione; umile alleato di chi fa il bene, ma per amor di giustizia, sia inflessibile contro i vizi dei peccatori. (Libro II, Cap. 1)
Il pastore dovrebbe essere irreprensibile, dimodoché i suoi parrocchiani non vedano impedimenti nell'avvicinarsi a lui. Le persone dovrebbero essere favorevolmente disposte e desiderose di ricevere i consigli e l'assistenza, dalla loro guida fidata. Ed, ancor di più, egli dovrebbe compiere gli uffici pastorali maggiori, senza diventare arrogante e presuntuoso. Scrive ancora Gregorio:
La guida delle anime dovrebbe essere in tutta umiltà vicino a chi fa il bene, e, zelante nell'equanimità, severo contro i vizi di chi si dà al male; così non si anteponga in nulla ai buoni ma, quando la colpa dei malvagi lo richiede, non abbia esitazioni nell'affermare il potere del suo primato. Allo stesso modo, trascurando il ruolo che riveste, si ritenga uguale ai suoi sottoposti che vivono operando il bene, mentre non tema di far prevalere i diritti della verità e della giustizia nei confronti dei malvagi. (Libro II, Cap. 6)
Così, in molti altri passi della Regola pastorale, Gregorio si dilunga circa i pericoli nel sovrastimare il proprio ego e l'autorità clericale, indicandoli entrambi come dannosi pervertimenti della natura umana. Gregorio afferma:
Ma poiché quando la predicazione sgorga in modo fluente ed efficacie, l'animo di chi parla si esalta segretamente per la gioia data dall'affermazione di sé, è necessaria una grande attenzione affinché i morsi del timore la tengano a freno e non accada che colui il quale si premura di curare le ferite degli ascoltatori, portandoli alla salvezza, si inorgoglisca, non tenendo conto della propria salvezza; così, portando giovamento al prossimo, trascuri se stesso e cada, mentre aiuta gli altri a rialzarsi. (Libro IV).
Discernimento interiore
Nonostante il sacerdote vestisse la dignità clericale, sotto l'abito del pastore c'era comunque un uomo, con la stessa natura debole e peccaminosa dei suoi parrocchiani. Tutto ciò richiedeva un profondo discernimento interiore, unitamente ad una profonda capacità di autocritica, affinché le azioni del pastore fossero dettate non tanto da amor proprio, quanto da sincera devozione verso i suoi prossimi. Gregorio ammoniva:
Scuotano prima se stessi con opere elevate, e poi chiedano agli altri sollecitudine nel vivere bene; prima abbattano il proprio ego con l'arma della meditazione, cercando, con attento discernimento, quanto in loro è nascosto dall'infida vanagloria, per poi correggerlo con severo giudizio e, soltanto dopo, si occupino di mettere ordine nella vita degli altri con la predicazione. Prima puniscano i propri peccati fino a piangerne e dopo denuncino gli errori degli altri; e prima di formulare parole di esortazione, mostrino con l'esempio ciò che vogliono dire. (Libro III. Cap. 40).
Nel suo modo di intendere il ministero sacerdotale, la vocazione aveva senso nell'aiutare i peccatori a redimersi dai propri peccati, non nel dominarli o vessarli, condannandoli, ciò che era un costume diffuso a quei tempi. Hienstand e Wilson evocano, in realtà, proprio la stessa idea, quando scrivono: "Come pastore, [uno] dovrebbe valutare ogni cosa nell'ottica delle necessità della sua chiesa". (121) Dunque, la sfida lanciata personalmente da Gregorio a tutte le guide cristiane, era quella, nello svolgimento del loro ufficio, di esaminare in modo costante le proprie vite, i propri vizi e difetti, prima di criticare le vite ed i comportamenti degli altri.
In conclusione, l'auspicio di Gregorio era quello che i sacerdoti, meditando e mettendo in pratica le verità espresse nella Regola pastorale: "Non si compiacessero di governare sopra gli uomini, bensì di essere loro d'aiuto. I nostri antichi padri, del resto, furono pastori di greggi, non re di uomini". (Libro II, cap. 6).