Il vino fu la bevanda artificiale più popolare nell'antico Mediterraneo; ricco d'una mitologia sua propria, e forte d'un consumo sia giornaliero che avente ruolo preminente nella pratica cultuale, esso poté attraverso i fenomeni coloniali diffondersi in tutte le regioni sul Mediterraneo, e oltre. Gli antichi greci di fatto istituzionalizzarono il consumo di vino attraverso il simposio, il celebre convivio-gozzoviglia; e gli antichi romani fecero della viticoltura una considerevolmente fiorente attività economica — tanto che numerosi territori ad antica vocazione vitivinicola godono ancor oggi della più alta reputazione in seno all'industria enologica contemporanea.
La diffusione della vinificazione
La vite da uva (la quale cresce naturalmente nella maggior parte delle aree geografiche tra 30° e 50° parallelo nord aventi una temperatura media annuale compresa tra i 10 e i 20° C) fu addomesticata, nella sua varietà vitis vinifera sativa, nella regione caucasica da prima del Neolitico; di là, la pratica di torchiare l'uva onde ottenerne succo da fermentare in vino si diffuse in Medioriente e nel bacino del Mediterraneo. Prodotto in Egitto, Mesopotamia, Fenicia, e Grecia micenea, con il periodo classico il vino era ormai divenuto elemento apprezzabile nel rito e nella vita quotidiana; e, con il consolidarsi delle reti commerciali attraverso il Mediterraneo, la sua consumazione poté diffondersi dal Mar Nero alle coste nordafricane, fino alla penisola iberica. La vinificazione ebbe pertanto a divenire manifestazione tra le più visibili della colonizzazione culturale del mondo antico — e anzi di tale successo in Gallia e Hispania che, dal I sec. EC (Era Comune), quelle provincie si sostituirono all'Italia quali maggior produttrici di vino nel Mediterraneo. Durante la Tarda antichità, la viticoltura si diffuse ulteriormente, fino a includere aree adatte anche dell'Europa settentrionale, come sulla Mosella, in Germania.
Il vino nella mitologia
Secondo la mitologia greca, il vino fu inventato da Dioniso (Bacco per i latini). È riportato da alcuni autori il dio desse in generoso dono un ceppo di vite ad Icario, nobile cittadino di Icaria, in Attica; egli ne fece uva e vino, e condivise la bevanda con un gruppo di pastori nomadi, i quali, ignari tuttavia degli effetti inebrianti e credendo d'essere stati avvelenati, si vendicarono uccidendolo. Nonostante i foschi auspici di questo debutto mitico, questo dono degli dèi sarebbe diventato la bevanda più popolare dell'antichità.
La viticultura
Divennero presto appassionati bevitori anzitutto gli antichi greci, e la richiesta era conseguentemente sempre forte. Essi sapevano come i tre fattori essenziali di suolo adatto, clima propizio e varietà indicata si combinino nella creazione di tipicità e sapori. Quantunque dell'antica Grecia ci perviene la conoscenza e di numerose pratiche culturali e della mitologia inerenti il vino, furono però gli antichi romani a lasciarci le migliori descrizioni dei processi di vinificazione.
Le adatte forme di allevamento della vite onde far crescere le piante all'altezza dal suolo ottimale (a seconda delle temperature locali e del vento), magari la necessità di una pergola a sostegno, l'ottimale distanza tra una vite e l'altra, regolari potature a rinforzo della pianta — erano tutte pratiche note già agli antichi greci. Le viti potevano essere lasciate a crescere su sé stesse (allevamento ad alberello), supportate da sostegni lignei, o anche lasciate avviticchiare ad altri alberi (specialmente l'olivo) — quest'ultimo sistema fu prevalente nei vigneti romani e reputato essere il migliore quanto a qualità e resa del raccolto. Come per il più delle altre branche dell'agricoltura, la viticultura costituiva un serio investimento, e il margine di profitto rischiava già allora essere assai risicato se non sostenuto da una produzione sufficientemente copiosa; per dirla con Varrone, letterato, grammatico e agronomo: “Vi sono coloro i quali affermano che i costi di gestione di un vigneto ingoiano tutti i guadagni” (Bagnall, 7021).
La vinificazione
Gli antichi erano considerevolmente consci del valore di un buon vino, e i processi di vinificazione erano conseguentemente distinti tra quelli intesi all'ottenimento di un novello, ad uso del grande consumo e dei milites, e quello per vini da invecchiamento per intenditori. Alcune località ascesero presto in prestigio quali aree a vocazione vitivinicola, segnatamente le isole greche di Chio, Coo, Lesbo, Rodi, e Taso
In Italia, specifiche vigne come quelle dell'ager Caecubus (in Lazio, e il cui odierno vino è oggi noto come cecubo o abbuoto) e dell'ager Falernus (nel casertano) godevano di rimarchevole reputazione e furono apprezzati da autori quali Plinio il Vecchio, il quale scrisse ampiamente sull'argomento. I Colli Albani, la Campania, e il Nord Est erano particolarmente noti per la qualità dei vini; l'industria crebbe considerevolmente lucrativa, e furono introdotte vere e proprie denominazioni con disciplinari di produzione ante litteram (come attestato in iscrizioni pervenuteci) concernenti la vendita, l'esportazione, e la garanzia di qualità. Al di là delle produzioni su larga scala, la maggior parte delle tenute aveva un vigneto di proprietà per il consumo privato — a Pompei, ad esempio, due terzi delle ville constavano di vigne.
A seguito della raccolta, l'uva era sottoposta a pigiatura a piedi all'interno di larghi serbatoi in terracotta, tini, vasche in pietra, o semplicemente su d'un pavimento pendente verso un canale di scolo; il processo divenne più sofisticato con l'invenzione dei torchi a leva e a schiacciamento, la cui aumentata efficienza nella pigiatura si sarebbe successivamente evoluta nel torchio a vite dal I sec. EC.
Molti vigneti delle isole greche solevano aggiungere acqua salmastra al mosto onde rendere il vino più morbido e migliorarne l'acidità. Ambo vini bianchi e rossi venivano consumati — il colore dei secondi risultante dalla più lunga macerazione delle vinacce nel mosto prima di svinatura e torchiatura. Un colore più vivo era altresì ottenuto dall'affinamento del vino per alcuni anni, o addirittura esponendolo al calore, conservandolo in stanzoni sovrastanti un focolare.
La fermentazione avveniva in grosse giare di terracotta, generalmente parzialmente infossate nel terreno, in stanzoni a cielo aperto e le cui pareti recavano numerose aperture per la circolazione dell'aria. Una volta pronto, il vino era travasato in anfore fittili atte al trasporto e tappate con argilla o resina — a quelle destinate all'esportazione era apposto un marchio indicante l'origine. Il vino era venduto al mercato e, nel mondo romano, in enoteche vere e proprie. Gli antichi romani prediligevano i bianchi dolci — i quali solevano essere assai meno limpidi degli odierni, a cagione dei meno evoluti processi di produzione. I cartaginesi avevano gusti simili, e producevano bianchi dolci da uve essiccate al sole. Il vino era preferito puro e senza aggiunte, ma produttori e rivenditori privi di scrupoli erano già soliti aggiungere sostanze (dalle spezie al miele) che mascherassero il sapore di vino cattivo o inacidito.
Il consumo del vino
Il vino fu ubiquitaria e relativamente economica bevanda giornaliera sia presso la Grecia classica che la romanità, ed era bevuto accompagnato a pasti e da solo. Gli antichi greci solevano consumarlo diluito con acqua (una parte di vino e tre d'acqua), mentre i macedoni, destando scandalo, lo tracannavano puro. La diluizione aiutava a prevenire l'ebbrezza, considerata almeno dall'élite un tratto proprio di culture straniere “barbariche”, e ampiamente parodiata nelle commedie greche; l'ubriachezza è inoltre in numerosi miti addotta a spiegazione di comportamenti feroci o incivili, come ad esempio la rissa causata dai centauri inebriati alle nozze di Piritoo.
Gli autori antichi mettevano in guardia dai pericoli dell'ubriachezza fisica quanto mentale: Aristotele, ad esempio, scrisse un Περὶ μέθης (“Sull'ubriachezza”) ora perduto; Plinio il Vecchio notoriamente rimarcò come il vino riveli verità che è meglio tacere (“In vino veritas”; l'originale cita “Vulgoque veritas iam attributa vino est”: “La verità è proverbialmente attribuita al vino” — N.d.T.). Si tratta tuttavia di raccomandazioni senza dubbio rimaste non solo inascoltate presso i plebei ma che anzi non salvarono personalità del calibro di Alcibiade, Alessandro Magno e Marco Antonio dalla reputazione d'ubriaconi.
Era consuetudine greca bere vino in occasioni mondane quali i simposi, presso i quali cittadini maschi d'alto ceto solevano discutere di politica e filosofia o essere intrattenuti da musici e cortigiane (le etere, ἑταίραι). Lo star distesi dei bevitori su lettini (klinai, κλῖναι) diede necessaria origine a coppe che potessero essere facilmente impugnate e sollevate da terra, come la larga e poco profonda kylix; mentre il più largo, capiente e sempre fittile cratere (κρατήρ) donde attingere il vino, era utilizzato onde mischiare la bevanda con l'acqua. L'equivalente romano del simposio fu il convivio, cui anche le donne d'alta società potevano partecipare, e dove era conferita maggiore enfasi al cibo.
Oltre ad essere bevanda deliziosa e “lubrificante sociale” per eccellenza, il vino aveva anche l'ulteriore e non secondaria funzione di sacramento durante le libagioni in onore degli dèi. Inoltre, spesso più salubre di poco affidabili fonti d'acqua, veniva talvolta prescritto quale medicamento dai dottori antichi — un rimedio comunque da assumere con moderazione, chiari come già erano i pericoli del bere eccessivo associati a insonnia, amnesie, distensione addominale, problemi comportamentali, e morti premature. Il vino era un dono degli dèi… ma abusarne avrebbe potuto comportare l'andarli a trovare prima del previsto.